Un po’ come non superare il primo turno ai mondiali di calcio, perdendo sin da subito la partita. E’ questo l’effetto suscitato dai film che hanno rappresentato il cinema italiano alla settantatreesima edizione del Festival del Cinema di Venezia. E – si sa – perdere tra le mura amiche fa male ancora di più.
Sembra essere questo uno dei primi verdetti dell’edizione corrente. Il cinema italiano, come scrive il Corriere della Sera, sembra essere “Troppo esile, troppo fragile, troppo narciso. L’ultima conferma è venuta da Questi giorni, terzo titolo italiano presentato in concorso ed ennesima conferma della fragilità di un regista che sa usare il tratteggio per le psicologie dei suoi personaggi ma non sa mai spingerli verso i chiaroscuri cui il cinema ambirebbe”.
Questi giorni racconta di tre amiche ventenni che accompagnano la quarta decisa a fare la cameriera a Belgrado. E la sua voglia di tagliare i ponti con tutto diventa il pretesto che offre alle altre la possibilità di rallentare tre destini che sembrano già scritti: chi si è scoperta un tumore (e l’impossibilità dell’amore col professore universitario), chi ha una gravidanza non proprio voluta, chi un fidanzato e una famiglia problematici. Ma quello che sappiamo all’inizio non evolve mai, ognuna resta il simbolo di se stessa, sempre uguale e sempre prevedibile. E l’entrata in scena della madre della malata (Margherita Buy) e dell’affascinante professore (Filippo Timi) invece di arricchire il film lo sfrangia ancora di più, in una sottotrama di cui non si sente la necessità. Anche perché non porta a niente. Piccioni gira intorno alle sue quattro ragazze, costringendole a non cambiare mai tono (specie l’aspirante cameriera. Eternamente ingrugnita), si concede qualche tocco «d’autore» ma alla fine resta prigioniero di un cinema esangue.
Scrive il Corriere:
Ecco questa incapacità — paura? — di usare delle proprie idee (o di quelle degli sceneggiatori) per offrire ai propri film la verità e l’originalità che tutti vorremmo, sembra aver contagiato molti dei registi italiani qui a Venezia. Kim Rossi Stuart sogna un film sulla doppia impasse che può colpire un attore, quella artistica e quella privata, epperò nel suo Tommaso (fuori concorso) finisce per ripetere sempre le stesse battute e le stesse scelte, inchiodando il film a un’inutile coazione a ripetere.