Nelle sale da domani 14 febbraio 2013, Quattro notti di uno straniero è il nuovo lavoro di Fabrizio Ferraro, filosofo del linguaggio e fotografo prima che regista.
E forse questa sua vasta esperienza nei campi del sapere ha condizionato molto la sua produzione filmica, purtroppo, però, non in modo positivo.
Quattro notti di uno straniero è la conclusione del dittico di film iniziato con Penultimo Paesaggio, due film che partono dallo stesso spunto narrativo, quello dell’impossibilità della comunicazione amorosa. Il film è ispirato a Le notti bianche di Fedor Dostoevskij, opera che già altri registi hanno provato a trasporre al cinema, il cui esempio meglio riuscito sembra essere quello di Luchino Visconti.
Ferraro torna a Parigi, città che ha fatto da sfondo anche a Penultimo Paesaggio, una Parigi in bianco (troppo bianco) e nero (troppo nero) dove i due protagonisti, Marco e Caterina (interpretati da Marco Teti e Caterina Gueli Rojo) si incontrano, si inseguono e si sfuggono. Osservati in ogni movimento, i due sono guardati attraverso l’occhio freddo della macchina da presa che li riprende -la maggior parte del tempo- di spalle.
Lunghi silenzi che fanno da sfondo a inquadrature fisse che si allargano gradualmente, lunghi piani sequenza nei quali l’immobilità delle relazioni, così come concepita da Dostoevskij, viene portata, almeno nelle intenzioni, alla sua massima espressione cinematografica. Ma, laddove all’immobilità di Dostoevskij è sottesa una grande forza espressiva e una vibrazione costante delle più profonde corde emotive, in Quattro notti di uno straniero diventa immobilismo anaemotivo e freddezza.
L’intento del regista -ribaltare il predominio delle parole sulle immagini del cinema contemporaneo- può dirsi raggiunto, ma rimane, anch’esso, immobile e silente nella sua autoreferenzialità. Ferraro impone la sua autorevolezza di conoscitore del linguaggio, ma non scende al compromesso necessario al cinema e alla sua sopravvivenza: quello con lo spettatore.