Se nella cinematografia italiana contemporanea c’è un cineasta che sembra essere arrivato da un altro pianeta, questo è senza dubbio Davide Manuli.
Lo aveva accennato con il suo primo lavoro, Girotondo, giro attorno al mondo, ha dichiarato, quattro anni fa, con Beket e, adesso, lo conferma con questa sua ultima pellicola, La leggenda di Kaspar Hauser.
La leggenda di Kaspar Hauser si pone proprio come seguito di Beket.
Se Beket, infatti, trasposizione cinematografica di Aspettando Godot, Manuli racconta l’assurdità dell’esistenza, qui il tema portante è l’incomunicabilità. Da un lato, in Beket, il continuo movimento dei personaggi in una spazio senza spazio, dall’altro, ne La leggenda di Kaspar Hauser, la staticità dei personaggi, intrappolati in dialoghi che divengono monologhi, in lunghi piani sequenza e accompagnati da una martellante colonna sonora tutta elettronica.
La leggenda di Kaspar Hauser è quello che non ti aspetti da un regista italiano. E’ una pellicola che non ha nulla a che fare con i canoni della cinematografia classica e che, soprattutto, non ha corrispondenti in nessuna opera italiana, ma anche internazionale, degli ultimi venti anni.
Perfezione estetica e completa libertà formale, senza che però questo si trasformi in un mero esercizio di stile.
La leggenda di Kaspar Hauser è un film che si nutre di cinema, dei suoi linguaggi e delle sue tecniche e che, proprio per questa consapevolezza e capacità del regista nel loro utilizzo, diventa eversivo, quasi una minaccia per tutto quello che c’è intorno.
Davide Manuli con questo film ribadisce il suo talento fuori dal comune e la sua idea di cinema. Guardare La leggenda di Kaspar Hauser vuol dire partecipare al film, non subirlo, non c’è una comunicazione tra l’attore e lo spettatore, ma una sorta di simbiosi emozionale ed esperienziale che va la di là del linguaggio, quello parlato e quello delle immagini, e che chiede allo spettatore di vivere il cinema, non il film.
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