Parla il figlio di Gillo Pontecorvo, Marco, e in particolare del film Kapò, un lavoro difficile, perché raccontava l’orrore dei lager da un punto di vista non ancora affrontato per l’epoca. Eravamo nel 1960 quando venne portata nelle sale la storia di chi, come vittima del carnefice, si ritrova al suo fianco senza volerlo.
Quello del kapò era forse il ruolo più orrendo per chi, da deportato, doveva collaborare con i nazisti. Qualcuno impazziva, qualche altro si abbrutiva più dei carnefici, altri non ce la facevano.
Un film ancora attuale
Ma Kapò è anche una storia attuale, perché di ruoli del genere ce ne sono in tutte le guerre. Catturata assieme ai suoi genitori a Parigi, la ragazzina Edith si ritroverà ad Auschwitz senza nessuna possibilità di rivederli, se non verso la porta delle camere a gas.
Tra i vari risvolti del kapò, ci fu anche il sacrificio, come nel film, con Edith che sacrificherà se stessa per salvare gli altri. Non andò sempre così, e alcuni kapò si dimostrarono più odiosi degli stessi nazisti.
Ma non Edith, che nel film riuscirà a diventare Nicole, e a passare da ebrea a criminale comune, grazie ad un dottore del campo. Trasferita in Polonia, diventerà kapò in un campo di lavoro, ma aiuterà a fuggire gli stessi prigionieri che avrebbe dovuto sorvegliare.
Un film difficile, come conferma lo stesso figlio Marco, che ricorda il padre e la lavorazione di questo capolavoro che viene riproposto in versione restaurata alla Festa di Roma:
“Mio padre era testardo come un mulo, non andava avanti se non era convinto di qualcosa”.
Al festival del cinema della Capitale saranno festeggiati i cento anni del regista che ci ha lasciato nel 2006.
Il figlio Marco ripercorre la genesi del film, nato dopo la lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi, con la sceneggiatura scritta assieme a Franco Solinas, non senza difficoltà e divergenze:
“Su un tema in particolare, perché Solinas voleva che Edith si innamorasse di uno dei prigionieri ma mio padre era contrario. La storia si svolgeva in un campo di lavoro nazista, una situazione ben diversa da un campo di sterminio, e gli sembrava fuori luogo una storia d’amore in quella realtà. Hanno litigato e non si sono parlati, ma dopo due giorni si sono incontrati dicendo l’uno all’altro ‘avevi ragione tu’, hanno trovato una soluzione e sono andati avanti”.