Era il 1965 quando un giovanissimo Marco Bellocchio debuttò nel mondo del cinema con un’auto-produzione, “I pugni in tasca”, opera (quindi) prima del regista di Piacenza formatosi a Roma e Londra tra Centro sperimentale di cinematografia e Slade School of fine arts.
I suoi miti? Bresson e Antonioni. Il suo primo film? Un concentrato di passioni: la storia di una famiglia che vive sulle colline di Bobbio, a pochi passi da Piacenza, la storia di giovani inquieti e impetuosi. Un film, “Pugni in tasca”, sempre sul filo della tensione.
In un clima, quello degli anni sessanta, dominato da Fellini, Antonioni e Visconti, il debutto di Marco Bellocchio suona come atipico. Non paga completamente il dazio al cinema del suo tempo. Presta il fianco al cinema ‘made in Usa’, e alla Francia di Godard.
Emblematico sotto questo punto di vista è l’esempio fornito dal paradigmatico “Fino all’ultimo respiro”. Ma Bellocchio, che proprio non vuole fare i conti solo con i panni di casa sua, presta anche attenzione all’umorismo nero proveniente da quella Londra in cui ha studiato.
“I pugni in tasca” è un insieme di castelli di rabbia pronti a farsi polvere, esplodendo. Un inno alla rivolta, ma anche uno sguardo all’inettitudine.
Siamo in una villa di campagna. Qui vivono una madre cieca e i suoi quattro figli. La loro è una famiglia assolutamente particolare, anche perché molti dei ragazzi hanno purtroppo gravi problemi psichici. Fra questi solo Augusto pare aspirare a una condizione di normalità borghese.
Invece, Leone è subnormale e finisce affogato nella vasca da Sandro. Costui è epilettico e anche Giulia non è del tutto “a posto”, almeno a giudicare dal modo con cui osserva il fratello morire durante una crisi di epilessia.
Vale la pena vedere questa folgorante e disarmante opera prima del ventiquattrenne Bellocchio, che firma il soggetto e la sceneggiatura.