Chiacchieratissimo, condiviso compulsivamente e già bersaglio degli hater che di parlare bene di una cosa di cui parlano tutti non se la sentono: Favolacce divide perché impera, e la lezione de La Grande Bellezza si ripete. Se i D’Innocenzo non hanno il taglio di Sorrentino, il pubblico che odia mantiene sempre quel mood che deve per forza ghigliottinare un’opera oggettivamente riuscita.
Favolacce non è il pugno nello stomaco – espressione di cui ci siamo tutti stancati, diciamolo – ma la carezza falsa e nervosa di chi sta per toglierti la luce. C’è la provincia, c’è la borgata, ci sono le villette a schiera che somigliano tanto all’urbanistica di Halloween ma nelle quali si muovono personalità pasoliniane e garroniane. Architetture grandi per uomini piccoli che consumano il loro confronto sanguigno con piccoli uomini. I primi sono i padri e le madri, i secondi sono i loro figli.
La vita del vicinato striscia tra una superficie cortese che nasconde un bollore pronto a esplodere, e non di certo per la torrida estate nella quale è ambientato il film. La cornice è un diario ritrovato, sfogliato da un narratore invisibile (Max Tortora, mica bruscolini) e che s’interrompe troppo presto. Mentre gli adulti ostentano figli che non ricambiano il favore, i figli sono sempre più spaventati dal mondo dei grandi che, anziché proteggerli, intende divorarli.
E no, la paura dei bambini non è per il futuro: i piccoli hanno già voglia di emanciparsi solamente perché i loro genitori hanno dato loro l’illusione che la vita è fatta di sesso, numeri su una pagella e prove di forza. Sono piccoli, ma già sanno che c’è qualcosa di sbagliato. Per questo il loro sguardo è quello delle creature rassegnate e passive, ma anche dei passerotti che un giorno spiccheranno il volo.
Se c’è una cosa che Favolacce ci insegna è che la speranza non è mai scontata. In tutto il film i D’Innocenzo ci sbattono in faccia la triste realtà: niente andrà per il verso giusto e lo capiamo dal latente nervosismo che domina gli istinti dei personaggi, talmente reali da trovare in noi ora un complice e ora un nemico.
Da Favolacce, se l’autocritica ce lo consente, impariamo che ogni azione ha una conseguenza, e la tragedia che si consuma minuto dopo minuto dimostra che le famiglie protagoniste non hanno a cuore le loro creature, bensì la loro personale collezione di insoddisfazioni e dominio della scena.