Curon meriterebbe più dignità (solo per chi ha già guardato)

Tanto hype per nulla, direbbe Shakespeare nella versione 2.0 della sua opera: Curon doveva essere la rivoluzione di Netflix, o comunque una novità capace di pareggiare le serie mistery che sulla piattaforma hanno dato inizio a vere e proprie manie. Un po’ Dark, un po’ Stranger Things, ma diventa tutto molto strano quando sentiamo gli archi della colonna sonora imitare l’intro di A Forest dei Cure o quando i personaggi aprono bocca per la prima volta.

Recitazione troppo teatrale e meno spontanea: quando Valeria Bilello sparisce dovrebbe scoppiare il caos, ma è un caso che non viene fuori. C’è violenza, c’è bullismo, c’è mistero ma tutto viene ridicolizzato in una serie di stereotipi che ancora una volta sono l’autoflagellazione della produzione italiana. Curon gioca troppo a imitare e, se non fosse per quel campanile semi sommerso, probabilmente perderebbe spettatori dopo il secondo episodio.

I due adolescenti che per l’intera stagione cercano risposte senza fare troppo domande sono bilanciati: lei è quella cazzuta che prende a pugni i bulli della scuola per poi concedersi a uno di loro – dopo aver visto morire un amico di famiglia, del resto – lui è il fratello sfigato e indifeso che però si mostra più sensibile di fronte al pericolo.

La cornice è la traslazione di una famigliola dalla frenetica Milano alla provincia trentina, perché la madre (Valeria Bilello) deve ricominciare da zero dopo il disastro del suo matrimonio. A Curon (Curon Venosta, che esiste veramente) raggiungono il padre di lei, Thomas, che anziché fare gli onori di casa li invita a tornare indietro.

Suggestiva la casa-albergo, mozzafiato i paesaggi e altrettanto valida la fotografia che rappresenta il punto più forte della serie. Non fosse per quelle sequenze techno buttate lì tra le scene di suspense, non fosse per quella recitazione che enfatizza anche un “Ciao”, non fosse che l’idea di incasinare la trama per darsi un tono non fa che appesantire e rendere banale l’intento, Curon non sarebbe male.

Manca qualcosa, e il vuoto è colmato dalla presunzione: ottima l’idea, pessima la messa in pratica che si perde nel cliché del prodotto maledetto, che così maledetto non è.

Lascia un commento