Sono passati vent’anni da i “Vitelloni“, dall’apice del successo. Due lunghi decenni, che Federico Fellini ha vissuto da protagonista raccontando un’Italia inedita. Raccontando anzi, più Italie incastonate nella Penisola.
“Amarcord”, una parola del dialetto emiliano da tradurre con “Io mi ricordo”, è il momento in cui tirare alcune somme e riprendere il filo dei ricordi di gioventù. Cosa spinge Fellini in questo viaggio a ritroso? La nostalgia, ma non solo.
Il film è l’ennesimo spunto per focalizzare gli aspetti di un’altra Italia. Quella del ventennio fascista, quella delle provincie.
Così, “Amarcord” diventa il meraviglioso affresco di un microcosmo con i suoi riti propiziatori, la morale cattolica, la repressione sessuale. I protagonisti di questa dimensione pittoresca paiono essere usciti da un mondo di ‘fanciullini.
La pellicola è senza dubbio una delle massime espressioni del genio “felliniano”. Un genio in grado di nascondere dietro molti veli la sua personale critica nei confronti di un ambiente filofascista e retrogrado. Nel contempo, la genialità di quello che forse era il più grande regista italiano sta nello smitizzare alcune demagogie mediante una messa in scena onirica e poetica.
Oggi, guardandoci a nostra volta indietro, possiamo considerare “Amarcord” come l’ultimo grande capolavoro del maestro che si avvale per l’occasione di una grande firma. Fellini è infatti coadiuvato da Tonino Guerra. L’unione tra i due romagnoli DOC offre vita a una storia dal tocco elegiaco, il tutto trasfigurato in una cittadina romagnola sospesa in una specie di sogno.