“Le notti di Cabiria”, quando la povertà si fece arte

di La Redazione

“Le notti di Cabiria” conclude idealmente la trilogia “cattolica” che Federico Fellini dedica alla celebrazione (a suo modo) del ‘sacro’ di concerto con la “La strada” e “Il bidone”.

Da segnalare, in primo luogo, è il personaggio di Cabiria.

Fellini la descrive con compassione ma le dona uno sguardo crudelissimo (uno sguardo che è anche rivolto al mondo del cinema).

Interpretata da Giulietta Masina, Cabiria è una prostituta che ha raggiunto un certo benessere e che conserva, nonostante la tormentata vita che conduce, un animo ricco di bontà e di candore al punto da avere il coraggio di essere ancora alla ricerca del vero amore. Ma il suo è un mondo spietato: un uomo sembra sinceramente innamorato di lei e intenzionato a sposarla, ma, durante una gita al lago di Bracciano, manifesta le sue vere intenzioni. Cabiria è tuttavia alla fine ancora disponibile a riconciliarsi con la vita.

Numerose sono le qualità di questo film, così come sono numerosi gli aneddoti da raccontare. Uno su tutti? La collaborazione di Pier Paolo Pasolini alla stesura finale.

Il film, peraltro, vinse l’Oscar come miglior film straniero a Los Angeles.

Il merito di Fellini, un merito che solitamente viene attribuito al ‘primo’ Fellini, è quello di aver trasformato la miseria e il nulla in energia, facendo ‘tanto con poco’ e rendendo arte la povertà.

“Le notti di Cabiria” rappresenta tutta la sua bravura nell’aderire ancora una volta alla ‘realtà che riguarda gli ultimi’.

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