Salvatore Mereu prova a portare sullo schermo un romanzo. Non un romanzo qualsiasi, ma un romanzo scritto in dialetto sardo che parla di una ragazzina, con tutti i sogni e le speranze delle ragazzine, della sua amica del cuore e delle condizioni nelle quali si trova a vivere nella sua casa alla periferia di Cagliari.
Una storia, quindi, che sta allacciata a doppio giro con la realtà dove si svolge, ma il bello della settima arte è anche questo, nel rompere quei confini imposti da tempo e spazio.
Mai, nella letteratura sarda, tanta grazia e tanta leggerezza si erano coniugate ad accadimenti anche drammatici: ogni più piccolo episodio della giornata di Cate e di Luna, anche quello più vicino alla peggior cronaca, è sempre stemperato da un’ironia sottile e da una capacità di sorridere di se stessi rara nella nostra letteratura e nel nostro vissuto almeno quanto l’intrusione continua della lingua parlata in quella scritta.
In questo Atzeni può essere considerato, a buon diritto, l’apripista, il padre della nuova letteratura isolana, per esplicita ammissione anche di coloro che lo hanno succeduto e a cui hanno manifestato dichiaratamente di ispirarsi. Eppure qui sta il paradosso, l’errore più grande: trattare Bellas Mariposas e Sergio Atzeni solo come una faccenda isolana da dibattere tra conterranei.
E’ questo il presupposto di partenza di Salvatore Mereu. Un punto dal quale parte per portare una storia piccola e lontana alla portata di tutti, cercando di trasferire sullo schermo le potenti immagini scritte da Atzeni che, nella loro forza rappresentativa, vanno al di là della lingua e della terra.
E’ la lingua il nodo della narrazione, quella lingua che si nutre continuamente degli idiomi del luogo e li promuove a nuova forma scritta attraverso il ricorso ad una voce narrante attraverso la quale la protagonista ci racconta il suo mondo, costantemente minato dalle continue sopraffazioni degli adulti.